Nel paese senza ombra, le ombre erano scomparse. Sconfitte in una guerra sanguinosa, erano state bandite. Rinchiuse in un luogo remoto, lontano dalla vista e dalla memoria. Da allora erano passati secoli e nessuna aveva fatto ritorno. Da allora tutto era cambiato.
Nel paese senza ombra non esistevano più pozzi, grotte, né umide caverne. Nessuna tana dove le tenebre potessero nascondersi. Il cielo era privo di nuvole, una volta smaltata dipinta di zaffiro. La morte era stata sgominata, insieme alla notte, al freddo e alla paura. Ogni cosa era al posto giusto e ogni posto immacolato. Pulito, liscio, puro. Un gioiello d’incomparabile bellezza.
Nel paese senza ombra non si trovavano interstizi o imprecisioni. Colline e montagne erano state livellate, i boschi abbattuti, gli oceani riempiti di metallo solido. Il mondo era una piana incontaminata. Un deserto sterile. Uno specchio d’argento lucido dove la luce poteva rimirarsi. Cruda e netta. Sospesa in un eterno mezzogiorno. Implacabile. Ostile a tutto, fuorché a sé stessa.
Nel paese senza ombra, vetro e acciaio coprivano ogni cosa. Da orizzonte a orizzonte, senza fine. Un universo immobile. Immutabile, almeno fino a che non si formò la crepa. Un piccolo squarcio diagonale, da cui scaturì qualcosa. Un viticcio nero, un tralcio di spine acuminate. Un neonato immondo, nato da un seme oscuro. A lungo aveva atteso al buio. A lungo aveva scavato, con la pazienza torpida dei vermi. A lungo e non avrebbe atteso ancora. Uscì. Spaccò il cristallo disteso sulla terra, lo aprì, lo sbriciolò, alzandosi infine a sfidare il sole. La luce lo investì con rabbia, provò ad arderlo, a bruciarlo, invece lo fece germogliare. Il viticcio sbocciò e nacque un fiore. Un fiore carnoso, dai petali tinti di scarlatto. Cupo. Spaventoso. La sua ombra si allungò terribile e fu come la prima alba per il mondo.
Nel paese senza ombra, le ombre erano tornate.
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