Quando i cavoli sono fuori luogo e ci vorrebbe un legume che armonizzi il contenuto.
Quando il bon-ton ci rende nervosi.
Quando lo sfogo è d’obbligo, anche per il lettore.
E… di come un’imprecazione possa svoltare la giornata.
Nel mezzo del cammin di alcuni scritti… una parolaccia vien lieta.
Esempio:
I protagonisti sono due ventenni. Lui ha tradito lei.
Anno corrente: 2016.
“Sei uno sciocchino!” (lei)
Va bene. Aggiustiamo il tiro…
“Sei uno stronzo!” (sempre lei)
Non va forse meglio?
Insomma, vi è mai capitato di trovare che un libro sia scritto fin troppo “bene”? Eh sì, perché a volte la credibilità di alcuni dialoghi è davvero bassa. Quando si scrive un libro, come ci insegnano i grandi, bisogna partire da molti presupposti; per esempio l’epoca storica in cui è ambientato, l’età dei protagonisti, il contesto sociale e quello in cui si sta svolgendo il dialogo.
Ci sono certe diatribe fra personaggi più finte delle tette rifatte di qualche showgirl. Dialoghi che appaiono fin troppo pacati per essere considerati anche solo vagamente dei veri e propri litigi. Ora, alla luce di ciò che ho scritto poco sopra, le cose da considerare sono molte. Ed è comunque anche vero il contrario, della serie, il troppo stroppia.
Penso che se vogliamo raccontare la vita di questi anni presenti, dobbiamo anche considerare i difetti della società, le sue regole (a volte sbagliate) e… le parol(acce) che ormai sono di uso comune. Quindi se desideriamo avvalerci della facoltà di scrivere di “noi”, dobbiamo considerarci per come siamo. Inutile dipingere Luca come un meraviglioso palestrato, sex-symbol, che alla mattina se picchia il mignolo sulla cassettiera della camera, anziché imprecare anche in latino, dice semplicemente: “Accidenti che botta.”.
Oppure narrare le vicende di Alessia che in ritardo al lavoro, sgridata davanti a tutti dal suo capo e quindi presa per il culo dai colleghi, al posto di titolarlo nel peggiore dei modi dentro l’ascensore una volta sola, dice semplicemente: “Certo che sono proprio un’inetta, io.”
Inutile scandalizzarsi. Le parol(acce) ormai fanno parte del nostro vocabolario. La vera sfida è quella di saperle dosare e (non) usare nelle occasioni che (non) lo richiedono.
Chissà perché la prima cosa che si impara di un’altra lingua sono proprio quelle, eh?
Ora, abbiamo parlato del perché usarle è giusto, a nostro avviso. Ovviamente non pensate per questo di scrivere una parola e due vaffanculo. Sempre con la giusta moderazione, tenendo conto della realtà che state raccontando e del lettore a cui vi rivolgete. Questo spero sia chiaro.
In conclusione: se Luca e Alessia, dopo una giornata assurda, uno con il mignolino fracassato, l’altra con i nervi a fior di pelle per colpa del suo capo, dovessero incontrarsi, potrebbero diventare l’uno la luce dell’altra… ma non pensate minimamente di non farli sfogare a dovere!
“Oh, scusami!” (Alessia a Luca, dopo avergli pestato il piede – quel piede)
“Scusami un cazzo!” (Luca ad Alessia, tenendosi il piede – quel piede)
“Ehi stai calmino, eh. Non l’ho mica fatto di proposito.”
“Ci mancava pure che l’avevi fatto apposta.”
“Senti, Vaffanculo!” (Lei a lui, pensando di prendere l’occasione per sfogarsi)
“Va beh, non importa. Giornata assurda.” (È carina, cazzo)
“Sì, anche la mia. Ti va un caffè?” (È carino, cazzo – meglio svoltare la giornata in positivo)
“Mi va.”
Alla fine si sposano… fate voi.
Jessica Moro
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