Milano, 19 aprile 2017 – Incontro con Teresa Ciabatti tra i finalisti dello Strega con “La più amata”

Com’è scrivere a 40 anni? Voltarsi e…
E prendersi la responsabilità dei propri anni, 44 e non 40, come voleva far credere a Wikipedia. Per lei non è stato difficile tornare indietro, si percepisce ancora appartenente a quella famiglia estinta, “Sono ossessionata dal passato”, afferma convinta.
Vuole capire, cerca la risposta a quell’unica domanda che la tormenta: “Chi è stato mio padre?”, una vera e propria fissazione, che la scrittura, come spesso accade, cura e che le permette di tramutare quella domanda in “Chi è Teresa Ciabatti?”.
Sì, questa è l’intervista riservata ai blogger, all’autrice di “La più amata”, fra i dodici finalisti al Premio Strega 2017. L’abbiamo incontrata a Milano, per voi, il 19 aprile.

“Quella della mia famiglia è la storia di una caduta.”
Da piccola, dice, avevo molti privilegi, come la bambola che in Italia non era ancora arrivata. Non aveva mai ragionato però sulla possibilità di perderli, quei privilegi.
“Non c’è più palcoscenico”, dice.
Eppure, continua, ho ricordi di un’infanzia meravigliosa. Dice di aver amato suo padre, di non poter dire che è un mostro, sebbene lui esercitasse il suo potere sulle persone, sebbene avesse esercitato quel potere all’estremo, nell’unico elemento veramente tragico descritto nel libro: la cura del sonno inflitta a sua mamma.
“Si è addormentata che avevo sei anni, si è svegliata che ne avevo sette.”
Dice che la durata del sonno indotto a sua mamma l’aveva dimenticata, ricordandola solo da adulta. Eccolo il potere di suo padre, in tutta la sua assurdità: la cura del sonno si usava su pazienti con forti dipendenze o affetti da una depressione molto grave e aveva una durata di due mesi al massimo. Non avveniva di certo per un anno e nell’abitazione privata del paziente.
“Per loro non era una violenza, oggi per me è una vera violenza.”
Ecco perché dice di avere un legame eccessivo con la sua infanzia e afferma:
La letteratura femminile è legata alla saggezza: io non ho risposte, sono una voce femminile atipica, non ho quella saggezza.”
Con tutta la sua schiettezza dice di essere una donna comune: “Sono questo essere umano, ed è colpa mia.” Ammette di non avere una verità più degli altri e che, quello che può fare, è essere sincera e non puntare mai il dito. Di sicuro sente di aver trovato il suo linguaggio, di poter dare voce alla sua visione diretta delle cose.

Sono Teresa Ciabatti e sono qui, con dei limiti enormi, sono una donna comune.
Diciamo però che nel libro c’è una grande evoluzione di Teresa Ciabatti perché alla sua ossessione di dare risposte alla domanda: “Perché io sono così, perché sono diventata questo tipo di essere umano?”, arriva la grande consapevolezza di dire “ma vuoi vedere che la colpa non è di nessuno, e io sono il prodotto di me stessa?” e questa è una grande risposta.

Sì è vero, ma non sono più matura rispetto a prima. Tutti mi chiedono: “sei maturata, una madre migliore?”, no!
E infatti non era quello che si stava cercando. La risposta è semplicemente “sono questo essere umano, e lo sono perché lo sono io, sono il mio stesso prodotto”.

Esatto, sono così per colpa mia. All’inizio del libro l’intento era quello più infantile che ci può essere: incolpare i miei genitori, mio padre. A un certo punto invece io capisco che la colpa è mia. Dipende solo da se stessi”.

Il tuo linguaggio è tagliente, ironico ma tagliente. Senza sconti”
Esatto, però anche questo non mi fa tanto onore. non voglio essere eroica.  Infatti, decido di scrivere questo libro quando i miei genitori sono morti.

“Nel giardino di ombre dove c’era mio padre, mi ci metto anch’io.”
Sì, perché nonostante le zone d’ombra, Teresa continua a non puntare il dito, al contrario, si mette allo stesso livello, non prende posizione, anzi, giudica se stessa in base a ciò che ricorda, ecco sì, l’unica persona che si permette di giudicare è proprio se stessa.
“Scrivo questo libro quando i miei genitori sono morti, quindi forse il mio è un atto di viltà. Il mio era il normale sguardo di un bambino che vede, ma non chiede.”
Lei percepiva alcune diversità, come le gerarchie che non corrispondevano a quelle ufficiali, quelle che si vedevano alla luce del giorno.
“Dico solo ciò che ho visto. L’intento mio non è risolvere, l’intento era ricostruire il buio.”
Spiega che ciò che racconta in “La più amata” per lei non è cattiveria, ma amore e perdono.
Racconta poi della felicità quando una telefonata inaspettata di suo fratello, che lei reputa nettamente migliore di lei, apre un altro varco di luce, sì, perché lui ha letto il libro:
“Con il mio libro, ho raccontato a mio fratello un’infanzia che aveva rimosso.”
Sì, perché come dice lei: “Nel buio, ci puoi mettere tutto.”
La luce fa la differenza nei dettagli: “Forse ho messo ordine ai ricordi di mio fratello.”
Questa è la sua vera vittoria, il grande risultato di quello che con il sorriso sulle labbra definisce un “percorso”.
Teresa parla anche di sua figlia. Memore del suo passato fortunato, già prima della sua nascita, voleva circondarla di cose belle e quindi anticipa tutti i suoi desideri. In realtà scopre che lei è totalmente diversa da come l’aveva immaginata. Per questo ha capito che esiste anche con il proprio figlio il capitolo “Conoscenza”.
“IO SONO CATTIVA”, questa è la frase che apre la sua pagina Twitter. Eppure, spiega, quella è solo una maschera, è un ruolo.
“Mi spaventano di più le persone che indossano la maschera dei finti buoni e poi in realtà sono cattivi. Chi indossa la maschera da cattivo, sotto è pur sempre un buono.”
Un’ultima curiosità…
Sicuramente la sociologia, quindi raccontare cosa è stata l’Italia in quel periodo, non è il fine di questo libro, anche se era necessario parlare di certe cose per la corretta collocazione storica del racconto: si fanno dei nomi precisi tra i quali alcuni che conosciamo anche noi che quel periodo lo abbiamo vissuto meno, e che comunque sappiamo essere stati legati alle Logge o alla P2, ma perché la scelta di farne altri, eclatanti ma meno accostabili a quelle vicende italiane? Per “insinuare”, instillare il dubbio?
Ad esempio, nel romanzo scrivi: “mi ricordo che vedevo in giro per casa, consegnando regali, Umberto Veronesi”. Nell’immaginario collettivo, soprattutto ora che è morto, il professor Veronesi è un eroe, un uomo che ha salvato molte vite: perché la scelta di nominarlo tra gli amici di tuo padre, facendone quindi un’insinuazione?
Prima di tutto voglio dire che l’ho nominato perché ho avuto il permesso della sua famiglia, in quanto Veronesi era davvero un amico di mio padre. 
Io li ho voluti nominare, senza in realtà dire perché, cosa facessero.
La domanda è: “perché c’è tutta questa gente importante che gira per casa? Tipo Veronica Fanfani. Perché proprio Veronica Fanfani, che tra l’altro mi spinge in piscina?”
Io volevo alludere a un mondo che non ha motivo di intrecciarsi, cioè di stare a Orbetello, nella nostra casa, di passare sullo sfondo, e quindi alludere a qualcosa di più grosso, che nemmeno io ho saputo circoscrivere bene, e ricostruire.
Alcuni, molti nomi li ho dovuti togliere, ne ho lasciati pochi. Ma comunque era esattamente questo l’effetto che volevo, cioè non c’è denunciata nessuna omissione però c’era questa connessione di rete che volevo comparisse.
Viene restituito bene lo sguardo di un bambino, che capisce che ci sono cose poco limpide ma che non fa domande ai genitori. 
Esatto.
Quando mi contestano “non hai risolto nessun mistero d’Italia”, rispondo che non era quello l’intento, che se ne fossi stata in grado lo avrei fatto in un altro modo.
Io non posso risolvere cose che neanche l’Italia ha risolto, io nel mio piccolo non risolvo niente, neanche su mio padre. Il senso del libro è proprio che non si arriva a tutto, ci sono cose che non si risolvono, uno deve anche imparare a convivere con il mistero e con il buio.
Il non prendere una posizione nel libro, è una scelta precisa. Non volevo fare un’indagine giornalistica, non era quello il mio intento, anzi volevo restituire un buio. 

Incontrare Teresa Ciabatti è stata la conferma a quanto su di lei avevamo appreso dal libro: ci è piaciuta la sua schiettezza, la sua motivazione. Ha parlato senza sconti, così come ha scritto il suo romanzo. Incontrare gli autori dei libri che leggiamo è sempre un’esperienza che arricchisce e aggiunge sfumature importanti ai concetti che dai loro libri abbiamo estrapolato. Ringraziamo Teresa per essersi raccontata con tanta semplicità e lo staff Mondadori che ha reso possibile questo incontro. 
Alla prossima!


Trovate a questo link la nostra recensione al libro.

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